Carissimi amici e fratelli,
non è mia abitudine scrivere per esteso le riflessioni da accostare alla Parola ascoltata, ma sarà per la forza e l’entusiasmo dell’attesa di questo momento, che ho voluto quanto più possibile essere preciso nel comunicare ciò che la lunga meditazione su questi brani mi suggerisce.

C’è attesa!

Apriamo gli occhi! Il mondo, tutto il mondo, è in attesa. Ci sono interi popoli che aspettano una salvezza, una notizia confortante. Ci sono paesi in guerra che attendono la pace. Ci sono profughi che attendono la promessa di una terra. Ci sono poveri che attendono una vita migliore. Ci sono giovani che attendono un futuro, bambini che attendono una gioia forte, anziani e fragili che attendono uno sguardo di bene.

Come ci dice Isaia nella prima lettura: “Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri»”[1]. E’ una ricerca che nasce da una speranza carica di tante attese. Certo lo sguardo si volge sempre verso un “Dio dell’infinito”. Persino l’ateo più disilluso volge il suo sguardo a Dio per gridare la sua disillusione verso di Lui e affermare invece un umano che sia fonte di speranza. Anche l’ateo, insomma, spera ed in questo spesso l’ateo è più spirituale e credente di certi religiosi.

Ecco! Chi sa vedere questa attesa cosmica coglierà la speranza che ci arriva da Gesù. Egli infatti non risponde alle attese di Isaia, nel modo in cui Isaia spera. Non si presenta “sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe”[2], ma sbaragliando ogni religiosità imbalsamata e incensata del tempio, Gesù “venne tra i suoi”[3].

L’evangelista Giovanni, infatti, nel prologo che abbiamo declamato canta: “venne tra la sua gente”[4] perché Egli “era nel mondo”[5]. Anche Paolo comprende il mistero che era sotto gli occhi di tutti e che pochi seppero scorgere: “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli”[6].

Il grembo della Terra

Quel “nato da donna” afferma in modo scabro e scandaloso che la presenza di Dio nel mondo giace nel grembo della donna. Il venire di Dio nella storia non appare come visione tremenda e spaventosa nello sfarzo religioso del tempio di Gerusalemme, ma nella carne umana: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”[7]. “In mezzo a noi” è proprio la dichiarazione scandalosa del “non-separato”. Se ‘santo’ in ebraico significa separato – e nel tempio c’era il “santo dei santi” cioè il separato dei separati – l’affermazione del prologo di Giovanni spacca come una sassata la cortina che separa Dio dall’uomo e l’uomo da Dio, proprio come farà il grido impetuoso del pomeriggio della morte del Cristo quando il velo del tempio si squarciò nel mezzo, strappandosi dall’alto al basso.

Isaia profetava che “da Sion uscirà la legge”[8]. Certo dall’alto della rocca di Gerusalemme si legiferava eccome sugli uomini! Ma non da “Gerusalemme esce la parola del Signore”[9]; il Verbo viene da Betlemme; a Betlemme “veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”[10].

Nell’utero pieno di vita di una donna che crede ad una promessa, si stringe definitivamente il patto di Dio con l’uomo. Infatti, Betlemme in ebraico significa “casa del pane” e in arabo significa “casa della carne”. Quindi l’evento dirompente e scandaloso di Dio che si presenta all’uomo non si svolge nel tempio asettico e rituale dove l’uomo si inginocchia a Dio, ma imprevedibilmente Dio si mostra all’uomo nella casa dell’uomo, quella fatta di carne e pane: lì avviene l’evento della salvezza.

Una comunità fatta di carne e pane

Voi siete comunità: fatta di carne e pane, di ferite e sorrisi. Voi siete il luogo amato dall’incarnazione del Dio di Gesù Cristo.

«Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo»[11]. Maria crede alla possibilità che il Figlio di Dio esca dall’umano, che l’uomo sia figlio di Dio, che Dio sia figlio dell’uomo: che nell’uomo ci sia la potenza dell’Altissimo. Crediamo noi questo? Ecco perché stasera siamo qui: questa notte serve a questo! Questa Messa serve a questo! A celebrare il nostro atto di affidamento a questa promessa che può continuare a compiersi: nell’umano. Nella sua fragilità di carne e sangue e pane c’è l’evento di Dio.

“A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”[12]. Non dalla carne, né dal sangue, non cioè dalle nostre fragilità abbiamo la promessa. Ecco perché le comunità autocentriche falliscono, perché la carne ed il pane se non vengono riconosciute come luogo teologico, di rivelazione, sono tristi e caduche. La promessa viene dal Dio di Gesù Cristo che non getta via le nostre incongruenze, le nostre fatiche alla vita comunitaria, le nostre incomprensioni, ma proprio in esse Egli oggi ripete: «qui è il Regno di Dio, io vi genero!» Riconoscendo la fragilità come luogo teologico scopriamo l’opera di Dio. Non è Dio che fa un discorso sulla fragilità dell’uomo, ma è l’umano che parla di Dio. Questa è la parola da accogliere, gestare[13] e partorire al mondo.

Così! Proprio così! Come Maria crede alla possibilità che nel suo povero umano fragile e segnato esca la salvezza dell’uomo, così stanotte ridiciamo il nostro atto di affidamento alla promessa che l’uomo possa salvare l’uomo! Questo è venuto a dirci Gesù: che nel suo nome, nel suo modo di vivere, nel suo modo di amare, l’uomo può salvare l’uomo. L’umanità può salvarsi nutrendosi di questa speranza. Non gettando via la carne come luogo del peccato come voleva la legge – e come tanto spesso ha decretato la Chiesa – ma accogliendo la carne con la sua fragilità come luogo della rivelazione dell’amore. Non accaparrandosi il pane strappandolo di mano al fratello più debole, ma spezzandolo e condividendolo perché ne avanzino persino dodici ceste piene[14] per i giorni più duri.

La presenza di comunità come la vostra è un segno di speranza per il mondo, per la nostra storia. Un compito preciso carico di umano quanto di divino. Così umano da essere divino! In una battuta possiamo dire: “divinamente umano”. Chi coglierà solo l’umano, proprio come il religioso che crede di cogliere il divino senza l’umano, resterà deluso e sconfortato. Chi coglierà l’umano come luogo del divino, vivrà di questa speranza e farà del mondo una comunità veramente umana.

Come capiamo che questa strada comunitaria è promettente?

Il contesto culturale postcristiano e postmoderno in continua evoluzione sta mettendo a nudo tutti i limiti di quelle strutture religiose sorte nell’epoca moderna, impostate sul primato della dottrina sulla coscienza, della fermezza sulla sensibilità umana. Prima di applicare dei princìpi dottrinali che abbracciano ogni tipo di situazione, si tratta d’imparare ad accompagnare le fragilità, di discernere il cammino da compiere insieme alle persone. Questo stile evangelico lo si apprende nella vita quotidiana, mantenendo il contatto con la realtà: carne, sangue e pane quotidiano. Si diventa uomini e donne sensibili all’umano solo vivendo situazioni umane, e la scuola di questo stile umano non può che essere la vita. È in essa, infatti, che scopriamo le sorprese, le situazioni che escono dall’ordinario, che esigono disponibilità e non rigidità, capacità di risposte nuove non il ripetersi stanco di tradizioni consunte[15].

Chi proviene da anni di indottrinamento, di educazione all’obbedienza alla dottrina, in un ambiente artificiale ampolloso, spesso maschilista, economicamente garantito, lontano dai problemi quotidiani della vita, ogni volta che si troverà dinanzi alla novità che la realtà manifesta, rimarrà spiazzato, imbarazzato, in una parola: impreparato. Al di là delle precise frasi altisonanti che si leggono nei documenti ecclesiastici, la preparazione per essere luce per la comunità umana non può essere primariamente intellettualistica, artificiale, separata dalla vita. Questa preparazione non può che ispirarsi al Vangelo: l’essenziale non consiste nel controllare l’ortodossia di una dottrina o la precisione di una rubrica liturgica, e nemmeno nella più alta riflessione sociologica o economica, ma nel condividere le gioie e le sofferenze con coloro che desiderano camminare sul percorso tracciato dal Signore che “venne tra la sua gente”. Inoltre, si tratta di annunciare a chi non lo sa, che la sua vita con tutte le sue contraddizioni è luogo della salvezza, perché in questo il Signore Dio è grande: Egli sa mettere salvezza persino dove gli uomini spandono morte. Annunciare è dire ai giovani più con l’agire che con le parole: «tu sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima e in te è il presente del mondo. Fanne un capolavoro!»

Lo stile di Gesù fin dal suo concepimento era ben diverso da quello impostato spesso dalla Chiesa. Gesù ha, infatti, aiutato i suoi discepoli e le sue discépole a comprendere le dinamiche del regno dei cieli non separandoli dalla vita, ma inserendoli in essa in modo nuovo; ha trasmesso i contenuti del Vangelo non con lezioni cattedratiche, ma con l’esempio quotidiano e, soprattutto, pagando di persona le scelte fatte. Il Maestro ha trasmesso l’insegnamento ai suoi discepoli camminando insieme a loro, ascoltandoli, offrendo loro delle nuove chiavi di lettura per metterli in grado di prendere in mano la propria vita e viverla alla luce del Vangelo[16].

Quante volte sono proprio i giovani a dire “Cristo sì!”, “La Chiesa no!” perché sentono come la loro carne non venga interpretata dalle alchimie teoretiche degli assunti cattedratici, ma sentono vibrante lo sguardo di Cristo alla loro fragilità e incoraggiante la sua mano per andare verso il futuro. Ecco perché io questa notte posso dire a voi in libertà: qui nasce la nuova Chiesa o, meglio, da qui la Chiesa si rinnova!

Quando Cristo rinasce nella carne dell’umano che ricomincia a sperare nelle sue profonde potenzialità, allora il giovane rialza lo sguardo e sorride al mondo.

Noi vediamo invece quanto spesso i giovani sacerdoti – sempre meno giovani di età – vengono formati a mantenere quella struttura rigida. Papa Francesco chiede con forza preti “in odore delle pecore”[17], ma la Chiesa gli resiste e tra i più rigidi sceglie i suoi vescovi perché li sente come rassicuranti e dottrinalmente attrezzati.

Non dipende dall’Istituzione, ma da te

Aspettarsi qualche rapido cambiamento nella Chiesa affinché abbandoni la rigidità dottrinale e diventi più umana e quindi più evangelica, è pura illusione, anche perché, coloro che dovrebbero produrre il cambiamento, vale a dire i vescovi, sono appunto scelti per la loro fedeltà alla tradizione dottrinale.

Sarà il popolo di Dio a salvare le comunità in virtù di quel sensus fidei – tanto caro al Vaticano II – che gli permetterà di cogliere la presenza del Signore nell’oggi della storia. Sono le piccole esperienze comunitarie come la vostra che stanno sorgendo un po' dovunque spontaneamente ai margini dell’istituzione e nelle quali si sente vivo il soffio dello Spirito Santo, a manifestare la presenza del Signore Gesù, mentre la Chiesa istituzionale con i suoi palazzi e le sue dottrine sarà destinata a crollare inesorabilmente al suolo. In futuro, guarderemo a quelle rovine con pochissima nostalgia e c’interrogheremo sul perché una simile struttura sia durata per così tanto tempo[18].

Ma non gonfiatevi il petto per queste mie parole – che oltretutto potrebbero giocarmi il posto e lo stipendio! Non gonfiatevi il petto; perché la carne di Maria restò umile ed umiliata. Solo così Maria poté custodire il Verbo di Dio. Quando, incompresa da Giuseppe, rischiò il linciaggio; quando dovette scappare dalla furia omicida di Erode; quando poté tornare a casa ma dovette restare nascosta per trent’anni; quando restò senza vino della festa di nozze; quando vide l’incomprensione alle parole del suo figlio amato; quando lo vide umiliato dalla stupidità religiosa, dalla violenza del potente, dalla codardia del seguace, quando lo assistette nella notte oscura della morte.

Qui rinascerà in voi la nuova Chiesa. Tra i pastori e le bestie, tra i nati da donna nel rifiuto dei ricchi e dei violenti. Nello sguardo implorante di protezione e di affetto che c’è in ogni uomo che nasce. Qui rinasce la Chiesa: quando in quello sguardo dell’uomo vede il sorriso di Dio, quando gli occhi del fragile e del povero nei tuoi occhi vedono il sorriso di Dio.

Quando tu dici di sì a concepire in te il Verbo, il Verbo che si fa carne, la tua, allora è Natale, un buon Natale.

 

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Omelia nella notte del Natale 2022 presso le comunità Efraim, Pachamama, Sichem
Olgiate Olona, 24.12.2022



[1] Is 2,3.

[2] Ibidem.

[3] Cfr. Gv 1,11.

[4] Gv 1,11.

[5] Gv 1,10.

[6] Gal 4,4-6.

[7] Gv 1,14.

[8] Is 2,3.

[9] Ibidem.

[10] Gv 1,9.

[11] Lc 1,31-32.

[12] Gv 1,12-13.

[13] Dal latino gestatio -onis «il portare, il farsi portare», der. di gestare, intensivo di gerĕre «portare».

[14] Mt 14,20; Mc 6,43; Mc 8,19; Lc 9,17.

[15] Cfr.: Paolo Cugini, ADISTA del 24/06/2021

[16] Ibidem.

[17] Francesco, 28 marzo 2013, s. Messa crismale presso la basilica di s. Pietro in Roma.

[18] Cfr.: Paolo Cugini, ADISTA del 24/06/2021.